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L'UOMO DELLA PIOGGIA
(JOHN GRISHAM'S THE RAINMAKER)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 5 aprile 1998
 
di Francis Ford Coppola, con Matt Damon, Claire Danes, Jon Voight, Mickey Rourke, Danny de Vito, Danny Glover, Roy Scheider (Stati Uniti, 1997)
 
In coda ad una serie ormai leggendaria di disavventure finanziarie, Francis Coppola firma il suo terzo successo commerciale consecutivo. Lo ottiene con uno dei suoi film "piccoli", minori, come lo erano OUTSIDERS, ONE FROM THE HEAR o PEGGY SUE; in contrapposizione ai suoi film grandi, mitologici, visionari come (quasi mi vergogno ad elencarli) APOCALYPSE NOW, i vari episodi de IL PADRINO o COTTON CLUB. E, quasi a volere mettere le mani in avanti, a voler scindere le varie... responsabilità, accomuna nel titolo di suoi successi tardivi il nome degli autori dai quali sono tratti: BRAM STOKER'S DRACULA o JOHN GRISHAM'S THE RAINMAKER.

Che questo suo ultimo progetto sia una di quelle opere che una volta - quando ancora si cercava di difendere il concetto un po' desueto di Autore - si definivano "alimentari", è il regista stesso a riconoscerlo: "Se con L'UOMO DELLA PIOGGIA riusciremo a fare soldi, forse ci dedicheremo in seguito a qualcosa di un po' meno convenzionale." Perché questa vicenda, del giovane avvocato esordiente che si ritrova a confrontare il proprio idealismo con i pescecani che governano la giustizia ed il sistema legale degli Stati Uniti, è davvero alquanto prevedibile: oltre che terribilmente ossequiosa, nei confronti di uno dei romanzi più mediocri di uno scrittore che geniale non lo è di sicuro. E sul quale Hollywood sta speculando, dopo il successo de IL RAPPORTO PELICAN, IL CLIENTE, IL SOCIO e compagnia, oltre ogni limite di decenza.

Certo, Coppola non è l'ultimo venuto. Ed ha l'intelligenza di adattare John Grisham a controimpiego. Non per quel modesto thriller che è: ma come un quadro d'ambiente, un film intimista, l'affresco malinconico di uno squallore morale che impregna ogni fotogramma. In una visione improntata ad un realismo che normalmente Hollywood fugge come la peste.

Nasce cosi un film un film encomiabilmente "sociale", con alcune scene filmate con mano toccata da una grazia che qualsiasi disillusione carrieristica non potrà mai cancellare: gli interni modesti ma carichi di affetto dell'abitazione di un malato di leucemia, che il protagonista ha deciso di difendere nei confronti della compagnia di assicurazione. E la direzione d'attori, con i quali, come sempre, Coppola "sperimenta" sistemi inediti di recitazione. Più dell'ingessato astro nascente Matt Damon, un formidabile Jon Voight, nei panni del cinico avvocato avverso; e la ricerca accurata e sorprendente di tutta una serie di visi in parte dimenticati dell'immenso patrimonio americano.

È probabilmente, accanto all'indubbia nobiltà dell'assunto, quanto basta ad assicurare a Coppola quel successo che tanto gli necessita: ma che ora dovrebbe permettere al fiero individualista di mettere in cantiere qualcosa di meno umiliante. Per quella che è stata una delle personalità più prepotenti, a costo di essere felicemente debordanti, di tutto il cinema moderno.


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